
Cinque libri e una docuserie, per l’estate. A me sono serviti per allargare la mia visione del mondo, stupirmi e rallegrarmi.
Eccoli:
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello
Il canto della fortuna
La città dei 15 minuti
I russi sono matti
Una geografia del tempo
Un video e una docuserie
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello
The Man Who Mistook His Wife for a Hat è un saggio con taglio narrativo pubblicato nel 1985 da Gerald Duckworth, scritto da Oliver Sacks, neurologo e scrittore britannico.
In Italia è stato pubblicato nel 1986 da Adelphi con il titolo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, tradotto da Clara Morena.
Direi che è un libro che parlava di neurodivergenze prima che il termine fosse coniato. Il termine per quanto ne so io infatti è apparso per la prima volta alla fine degli anni Novanta.
Sacks racconta una serie di casi clinici raccolti nella sua esperienza di neurologo, divisi per macrotemi, a seconda del problema che li aveva generati.
I quattro capitoli si chiamano così: Perdite, Eccessi, Trasporti, Il mondo dei semplici. Dunque le storie cliniche nascono a partire dalla perdita di una data funzione o dall’espletarsi sovrabbondante di un’altra.
Abbiamo così la storia di due gemellini savant che riuscivano a produrre lunghi elenchi di numeri prima, quella di un jazzista con la sindrome di Tourette, e quella di un signore con l’agnosia visiva, che scambiava sua moglie per un cappello.
Le storie cliniche, al di là delle spiegazioni neurologiche o psicologiche che possono essere in parte superate, diventano in questo libro racconti, storie di vita delicatissime, che restituiscono tutta l’umanità delle persone coinvolte.
Il canto della fortuna
Il canto della fortuna. La saga dei Rizzoli, pubblicato ad aprile di quest’anno da Salani, è il romanzo di esordio della mia amica Chiara Bianchi.
Chiara è una ragazza di Taranto, nata nel 1982 come me. Laureata in lettere e in musicologia, da molti anni fa la editor e ha scritto vari racconti. Come tante persone della nostra generazione, ha vissuto in tanti posti e ha fatto tanti lavori diversi. A un certo punto, tre anni fa, è arrivata a Berlino e ha creato Liber liber, un gruppo di lettura bellissimo in cui esploriamo le case editrici indipendenti italiane.
È così che l’ho conosciuta. Dopo averla conosciuta però ho scoperto che avevamo già vari amici in comune, per via delle peregrinazioni della generazione. Ad esempio Piero, un suo vicino di casa di infanzia, è un mio caro amico degli anni dell’Università a Bologna.
Tornando al libro: è molto bello e racconta la storia di Angelo Rizzoli, il fondatore della casa editrice omonima e di svariate altra realtà, tra cui ad esempio la casa di produzione cinematografica con cui produsse La dolce vita e Otto e mezzo, con cui vinse l’Oscar.
Cresciuto in orfanotrofio, Angelo aveva costruito la sua strada muovendosi nella Milano di inizio Novecento, una Milano più piccola e piena di possibilità.
Il libro è così la storia di una persona e al tempo stesso la saga di un’azienda e di una famiglia, intrecciate con la storia d’Italia, all’incirca tra il 1889 e il 1970, anni di nascita e di morte del protagonista.
La città dei 15 minuti
Droit de cité. De la ‘ville-monde’ à la ‘ville du quart d’heure è un libro pubblicato nel 2020 da Editions de l’Observatoire, scritto da Carlos Moreno, urbanista franco-colombiano.
In Italia è stato pubblicato nel 2024 da add editore, con il titolo La città dei 15 minuti. Per una cultura urbana democratica, la traduzione di Chiara Licata, la prefazione del mitico sociologo Richard Sennett e la postfazione della sociologa Saskia Sassen.
Questo libro, nell’edizione italiana, me l’ha regalato Chiara, la mia amica di cui ho parlato più sopra, durante il suo trasloco.
La città dei quindici minuti è un po’ la mia ossessione. Credo che Angelo Rizzoli, protagonista del libro di Chiara, abbia potuto costruire la sua fortuna anche perché si muoveva inizialmente in una città di quel tipo.
Ma cos’è questa città? È un concetto urbanistico, un modello per lo sviluppo delle città presentato da Moreno per la prima volta nel 2016.
In questo modello di città, le persone dovrebbero poter svolgere tutte le attività di base percorrendo tragitti, a piedi o in bicicletta, di al massimo quindici minuti dalla propria casa. Dovrebbero dunque poter istruirsi, lavorare, divertirsi, stare con gli altri, rifornirsi e curarsi comodamente.
Perché questo funzioni la città, se è grande o in fondo anche media o medio-piccola, dev’essere policentrica e avere al suo interno tanti quartieri ricchi di servizi, bellezza e cose che favoriscono le relazioni. Perché poi nella qualità e nella molteplicità delle relazioni che si sviluppano sta il senso di vivere in città.
Esempi di città dei quindici minuti sono per me il centro di Bologna, gentrificazione permettendo (lo so!), il centro di Brindisi oppure alcuni quartieri a Torino. Dunque Bologna di per sé non è una città dei quindici minuti, ma se si ha la fortuna di vivere dentro mura, si può provare la gioia di questo modello urbanistico.
I russi sono matti
I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 è un libro pubblicato nel 2019 da Utet.
Si tratta effettivamente di un corso di letteratura russa, buffo e ironico, che si legge come un romanzo.
L’ha scritto Paolo Nori, il mitico scrittore, traduttore e docente di Parma. Nei primi anni Duemila avevo letto il suo Bassotuba non c’è, un romanzo divertente sull’adolesenza prolungata, un tema che già allora che ero effettivamente postadolescente mi era caro.
Poi più avanti ho scoperto il rapporto di Nori con la letteratura russa. Un rapporto profondo, fatto di letture, traduzioni, esplorazioni, scrittura, insegnamento, metanalizzato sempre con ironia.
All’inizio del capitolo La paura Nori scrive così:
“Uno scrittore svizzero che si chiama Peter Bichsel, che ha scritto una volta: «Tutti noi abbiamo vissuto momenti di disperazione di fronte alle prime pagine dei grandi romanzi russi, quando non capivamo chi fosse lo zio e chi il fratello e se la zia fosse la moglie dello zio e se fosse il fratello o l’amico a essere innamorato della figlia e di chi fosse figlia la figlia. Siamo allenati e sappiamo come si affronta il problema: si continua a leggere, prima o poi si capirà», ha scritto Bichsel, e mi viene da dargli ragione: è vero, la letteratura russa, fan dei libri anche così grossi, fa un po’ paura”.
La letteratura russa io la adoro, mi fa riderissimo (citazione) da decenni e mi riporta sempre alla mia zona di sicurezza. Anche questo libro mi ha fatto riderissimo. Sto ancora ridendo per quando Nori racconta di come Turgenev, il grande scrittore, scappasse a Baden Baden, una epica località termale ottocentesca, ogni volta che provava paura.
Una geografia del tempo
A Geography Of Time: The Temporal Misadventures of a Social Psychologist è un saggio pubblicato nel 1997 da Perseus Book Group, scritto da Robert Levine, uno psicologo statunitense.
In Italia è stato pubblicato nel 1998 da Giovanni Fioriti Editore, con il titolo Una geografia del tempo. Le disavventure temporali di uno psicologo sociale, ovvero come ogni cultura calcola il tempo con qualche piccola diversità e la traduzione di Emilia Mammoliti.
Levine parte interrogandosi sul tempo: perché alcune persone sembrano non avere mai tempo e altre sembrano avere tutto il tempo del mondo? I secondi, quelli che vanno al cinema nel mezzo della giornata lavorativa o portano la famiglia a fare sei mesi sabbatici nel Pacifico del Sud, sembravano all’autore milionari del tempo e gli sarebbe così piaciuto diventare uno di loro.
Io mi sono spesso sentita così effettivamente, un po’ una milionaria del tempo. Mi piacerebbe a volte essere così occupata da non poter andare a prendere un caffè a caso nel corso della giornata o della serata, ma nemmeno gestire la mia attività, seguire un master, seguire in prima persona le faccende domestiche e vivere con vari bambini – per un periodo mi era capitato di fare tutte queste cose insieme – mi ha mai impedito di farlo. Così per questa mia strana condizione mi sono sempre interrogata sul tempo e ne ho già scritto in passato.
Il libro di Levine mi ha fornito così un concetto importante: la differenza tra il tempo dell’orologio (clock time) e il tempo degli eventi (event time).
Il tempo dell’orologio è ad esempio una cosa che avviene a un orario stabilito: la videochiamata alle 12, la cena al ristorante alle 21, la lezione dalle 10 alle 13. Eventualmente potrebbe esserci un inizio a un orario preciso e una fine libera (come nella cena) oppure inizio e fine stabilite (come nel caso della lezione).
Il tempo degli eventi è quello con inizio e fine libera, che non necessariamente indica giornate meno produttive o meno piacevoli. Per esempio in una giornata una persona senza figli in casa (ma non è l’unica condizione che lo rende possibile) potrebbe svegliarsi senza sveglia, fare colazione, lavorare, pranzare, lavorare e poi andare in giro e così via finché non ha sonno e va a dormire. Tutto il tempo sarebbe quindi scandito dagli eventi, non dall’orologio.
Personalmente, io uso il tempo dell’orologio per le cose di lavoro che coinvolgono altre persone. Per le videochiamate il tempo dell’orologio è sacro per me. Rifiuto di lavorare ad esempio con il telefono acceso o di dare il mio numero di telefono ai miei clienti, pure adorati, lasciando agli eventi l’andamento della mia giornata lavorativa.
Per tutto il resto cerco di utilizzare il tempo degli eventi, che è quello più tipico della mia cultura di origine, quella di Brindisi, una città di porto in Salento.
Se dovessi iniziare a lavorare senza motivo, ossia senza la presenza di un appuntamento con qualcun altro, alle 8 ogni giorno mi salterebbero i nervi. Lo stesso se dovessi andare a letto alle 22.30 senza una specifica ragione. Oppure tante volte mi veniva mal di testa quando qui in Germania bisognava iniziare senza motivo a cucinare alle 17, interrompendo le altre attività, solo per applicare il tempo dell’orologio alla cena, per poi arrivare comunque in ritardo. Il tempo dell’orologio applicato alla vita privata mi spezzava realmente, e non mancava mai di lasciarmi sgomenta.
Dopo aver analizzato le diversa concezioni del tempo nei vari luoghi del mondo e tra le diverse classi sociali, Levine suggerisce una cosa simile: vivere in modo multitemporale, mischiando il tempo dell’orologio e quello degli eventi, a seconda delle necessità.
Il libro offre livelli di lettura diversi e affronta temi ricchi e complessi, come ad esempio il fatto che alcune comunità, pur vitali economicamente, vengano marginalizzate perché non riescono ad adeguarsi alla concezione del tempo della cultura egemone. O che un orientamento estremo al presente può essere causa di povertà.
Più semplicemente, il libro ci suggerisce che il tempo è relativo e sperimentare diversi modi di vivere il tempo in giro per il mondo, o esplorando senza spostarsi i modi di vivere delle varie comunità intorno a noi, è molto utile.
Un atlante pieno di parole
Giorni fa per caso su RaiPlay ho trovato un video chiamato Passato e futuro. Girato nel 1969, parlava tra le altre cose di intelligenza artificiale.
Girando per l’Olivetti e altre realtà, gli autori del programma provavano ad analizzare, tra le altre cose, il rapporto tra il dialetto e i linguaggi di programmazione, su più livelli.
Ogni tanto compariva poi a commentare tutto Giacomo Devoto, il celebre linguista che ha creato il dizionario Devoto-Oli.
Ho scoperto così che il video era una puntata della trasmissione L’Italia dei dialetti, andata in onda appunto nel 1969 con la regia di Virgilio Sabel. La trasmissione si collegava a propria volta con un progetto straordinario di cui non conoscevo l’esistenza, L’atlante linguistico italiano.
Mastodontico e misterioso, avviato nel 1924 e ancora non completato, il progetto voleva mappare la varietà linguistica italiana, indagando vocabolario e consuetudini linguistiche in oltre novecento località italiane, chiamate punti linguistici.
I punti linguistici erano dunque città, paesi, forse piccole frazioni. Luoghi dall’importanza politica o economica diversa, analizzati alla pari.
Così, tra il 1925 e il 1940 e poi tra il 1952 e il 1965, alcuni raccoglitori, ossia linguisti inviati sul campo, giravano i punti linguistici e selezionavano uno o più informatori, ossia una o più persone del posto.
Dopodiché sottoponevano loro un questionario, per scoprire il vocabolario e altri aspetti della lingua locale. Gli chiedevano di nominare ad esempio gli utensili in cucina o quali fossero i nomi comuni dei componenti della famiglia. O ancora di coniugare alcuni verbi di base o di raccontare la parabola del figliol prodigo.
Quando indagavano i nomi degli oggetti della vita quotidiana, i raccoglitori facevano anche delle fotografie. Perché le parole erano strettamente legate a quegli oggetti, molti dei quali stavano cadendo in disuso. Una volta persi gli oggetti, sarebbero andate perdute anche le parole che li identificavano: per preservarne la memoria serviva raccogliere dunque sia le parole, sia le immagini.
La lingua espressione e specchio di una cultura, di un contesto, di una comunità. Il senso dell’atlante era dunque non solo registrare l’esistenza di modi di parlare, ma anche di indagare gli universi che a questi sottendevano.
Frutto della ricerca è stata poi la produzione di centinaia di carte geografiche, dedicate ciascuna a una parola, ad esempio “testa”. Sulla carta geografica veniva poi riportata la versione della parola testa, con scrittura fonetica, in tutte le centinaia di punti linguistici. Queste carte sononstate raccolte in volumi tematici, pubblicati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. A cento anni dall’inizio del progetto, restano ancora otto volumi da pubblicare.
L’ultimo volume, il decimo, è stato pubblicato nel 2023 e si chiama La società. Nella bottega e al mercato; al ballo; l’incendio; un fattaccio; giustizia e negozi giuridici; disuguaglianze sociali; le istituzioni. Non vedo l’ora di sfogliarlo in una qualche biblioteca!
Al momento il progetto è curato dall’Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, un centro autonomo di ricerca sostenuto dall’Università di Torino e dalla Società Filologica Friulana G.I. Ascoli di Udine.
I dialetti italiani derivano per lo più direttamente dal latino, spesso con l’influenza delle lingue preesistenti. Si sono sviluppati spontaneamente, come tante lingue neolatine, classificabili in diversi gruppi. La loro varietà e ricchezza mi ha sempre riempita di gioia.